Satsang Domenicale | Sugli Yogasutra di Patanjali

Swami Niranjanananda Saraswati, 6 March 2016, Ganga Darshan, Munger,

tratto da Yoga Magazine, luglio 2016  

 

Il Saggio Patanjali parla di asana come “sthiram sukham asanam”. Significa che l’asana è quella in cui uno è sthira e sukhi, o significa che sthirata e sukha sono il risultato della pratica di asana?

Sthiram e sukham, stabilità e comodità, sono il risultato della pratica delle asana. Quando sono il risultato della pratica delle asana, la postura stessa diventa ferma.

Chi può sedersi per cinque minuti senza muoversi? L’immobilità non viene naturalmente, perché essa non fa parte della natura dei sensi. L’intero corpo è governato dai sensi. Le distrazioni nel corpo sono causate dai sensi. Le distrazioni e i disturbi della mente sono causati dai sensi. Quando si assume un’asana, non si sta semplicemente praticando una postura fisica. Il corpo certo prende una posizione ma  l’effetto è ridurre l’iperattività dei sensi. Una volta ridotta la iperattività dei sensi, ecco che il corpo entra in uno stato di quiete e agio. Allora una postura può essere mantenuta per un periodo più lungo.

Patanjali dunque fa riferimento alle asana solo in quanto statiche e confortevoli. Il suo primo sutra è: Atha yogah anushasanam – “Ora, le istruzioni sul raja yoga”. Questo è interpretato da molti come se il raja yoga fosse una continuazione di uno yoga che sta prima e questo yoga è l’hatha yoga.

Quando si pratica il raja yoga, tutti i movimenti fisici necessari sono stati già fatti. Pertanto, il focus del raja yoga non è la pratica delle asana, bensì il mantenimento della postura fisica.

Se si assumono quindi posture come vrischikasana, sirshasana, mayurasana o anche surya namaskara, e si sperimenta con e attraverso esse la stabilità e la comodità, allora si stanno soddisfacendo i criteri del Saggio Patanjali.

La quiete e la stabilità del corpo e della mente in una postura vi condurrà nel pratyahara, o introversione. Anche se la calma e la stabilità sono il risultato della pratica asana, bisogna ricordare che il senso del sutra è in relazione alla immobilità che indurrà poi pratyahara.

Che cosa è pratyahara? È il ritiro dei sensi da oggetti esterni, il ritiro della mente dai sensi, o il ritiro dei pensieri?

Pratyahara è un argomento interessante. Lo scopo delle asana è quello di silenziare l’iperattività e le agitazioni dei sensi e della mente, portando all’esperienza del pratyahara. Ci sono tre modi in cui ho definito pratyahara e ci sono tre tappe progressive di pratyahara.

La tartaruga

Sri Krishna nella Bhagavad Gita dice ad Arjuna di ritirare i sensi e la mente proprio come una tartaruga ritira braccia, gambe, coda e testa nel suo guscio. Pertanto, secondo la Bhagavad Gita, ritirarsi da tutto ed essere assorbiti è pratyahara.

Ma, cosa si ritrae? I sensi e la mente. Esistono i cinque sensi fisici, i karmendriyas o organi d’azione, e i cinque organi di conoscenza, o jnanendriyas. E c’è la mente, il sesto senso, il sesto organo sensoriale.

Pratyaya, il vecchio file

Esiste una parola in Sanscrito, “pratyaya”, che significa un’immagine creata nella mente. Ad esempio, un ospite o uno studente arriva e rimane un mese a Ganga Darshan. Voi vi relazionate, interagite. Poi la persona torna a casa, ma nella vostra mente, resta il pratyaya, l’immagine. Quando poi arriverà una sua lettera, o una e-mail, quella stessa pratyaya verrà come reimpostata e le stesse informazioni già registrate verranno in superficie. È come riprendere un vecchio file per sapere chi è quella persona. Quello è pratyaya.

Pratyaya indica una connessione, una consapevolezza in voi su qualcuno o qualcosa. Questo può accadere con qualsiasi oggetto, anche una pietra può diventare una pratyaya. Se camminate lungo una strada e vi accorgete di una pietra, la pietra diventerà una pratyaya. Se osservate un bel fiore, quel fiore diventerà una pratyaya. Se notate durante una passeggiata mattutina due cani che lottano, quell’immagine diverrà una pratyaya. Tutto ciò che si riceve attraverso i sensi diventa pratyaya, un’impressione.

Pratyahara è liberarsi di queste impressioni poiché pratyayas determinano anche opinioni, giudizi. Questa persona è gentile, quella persona non è gentile. Questa persona è buona o è cattiva. Questa persona è utile, questa persona è piacevole. Questa persona è amabile o è incantevole. Questo giudizio, basato su pratyaya, è la causa del disturbo nella tua mente durante la meditazione e, perciò, va eliminato.

Pratyahara, nutrire sé stessi

Noi riceviamo continuamente input da innumerevoli fonti e da ogni parte. Questo è ahara, cioè nutrire sé stessi. Quanti suoni state ascoltando ora? Un numero incredibile di suoni, tuttavia il cervello sta filtrando solo quelli rilevanti in questo determinato momento. Ahara, tutto ciò che nutre (i sensi): voi siete solo consapevoli di un frammento parziale di tutta l’esperienza, sebbene l’intera esperienza vi stia nutrendo.

È possibile invertire questo? Invece di assorbire il tutto, lo si può allontanare così da svuotare voi stessi? Questo svuotarsi è conosciuto come karma kshaya, o la riduzione dei samskara, o superare il karma. Pertanto, le tre tappe del pratyahara sono:

1. Ritrarsi – per fermare le agitazioni dei sensi così che cessino di nutrirsi delle cose che gli stimolano.

2. Osservare – per scollegarsi dai pratyayas, le impressioni, che stanno ingombrando la mente.

3. Svuotare – per buttare fuori tutte le scorie latenti dalla mente.

Queste tre fasi indicano la sequenza in pratyahara.

Qualunque pratica voi facciate, sia che si tratti dell’osservazione dei pensieri o delle emozioni, della ripetizione di un mantra o della consapevolezza del respiro, ricordatevi che essa è solo un gradino per entrare nei diversi stadi del pratyahara in modo più controllato.

Come possiamo adempiere ai nostri doveri nel modo migliore evitando che il nostro ego prenda spazio?

La parola inglese è ego mentre la parola sanscrita è ahamkara. Come trattare questo ego, questo ahamkara? Esso ci distrae, ci disturba ed è difficile da gestire.

Ahamkara non è ego. È composto da due parole: aham che significa io, e akara significa forma, figura o identità. Quindi la parola ahamkara significa mia identità, la mia natura, la mia personalità. Quello che sono io, nel suo insieme, è ahamkara, la consapevolezza del proprio sé, il senso della propria identità. L’immagine di sé stessi, la propria reputazione, l’autostima divengono parte di una sorta di ricognizione del sé, che è ahamkara.

Tutto ciò va bene fintanto si è soddisfatti. Ma quando ahamkara, questa autocoscienza, entra in contatto con oggetti esterni per mezzo dei sensi, non rimane ahamkara. Si trasforma in qualcos’altro. L’auto-identità o l’auto-consapevolezza quando in relazione con gli oggetti dei sensi assume la forma di abhimaan cioè arroganza, e ghamand, orgoglio.

Orgoglio e arroganza, ghamand e abhimaan, insieme, sono conosciuti come ego nella lingua inglese. Ahamkara non è ego. Asserire “questa persona è egoista” ha una connotazione sempre negativa così come quando si dice “quello ha un grande ego”. Pertanto, dovete trattare col vostro orgoglio e con la vostra arroganza e non con la vostra propria identità, il vostro ahamkara. Dovete trattare con il vostro ego che è la combinazione di orgoglio e arroganza, ghamand e abhimaan. E ciò può accadere solo osservandovi e ricordando a voi stessi continuamente e costantemente quello che occorre fare.

Come si addestra un animale, ad esempio un cane, un cavallo, un uccello? Ripetendo le istruzioni più e più volte. Bisognerà porre sempre più attenzione e consapevolezza su quell’animale per controllarlo e per ben istruirlo. E, se non siete attenti e solerti, sarà difficile addestrarlo. Dovrete quindi continuare a ripetere: “Seduto, seduto, seduto, seduto, seduto”, ogni volta che l’animale si muoverà. Siete in grado di farlo con voi stessi? Se non lo siete, ricominciate dall’inizio un’altra volta.

Questo è il livello di competenza che bisogna acquisire per avere successo nello yoga! Per questo, essere drashta, ed essere sakshi, cioè essere osservatori e testimoni, è così importante. Dovete essere in grado di diventare testimoni, spettatori, piuttosto che essere catturati e trascinati nel flusso degli eventi. Dovete diventare testimoni di voi stessi. Pertanto, richiamate voi stessi, sempre e continuamente: “No, questo no, questo no, questo no, questo no!”.

Tutto ciò che innesca una reazione negativa, ostile deve essere eliminato. “Oh no, quella persona mi infastidisce, è una seccatura”: questo pensiero deve essere smaltito immediatamente perché alimenterà il vostro orgoglio e la vostra arroganza, e sarete sempre più imprigionati nei vostri comportamenti “ego-centrici” e sempre meno in quelli “ego-liberi”.

E’ qui che la maggior parte delle persone fallisce, quando non riesce a distinguere tra il comportamento egocentrico e il comportamento disinteressato. E non importa quanto grande o quanto sia elevato un sadhaka: quando deve rinunciare al comportamento egocentrico e esprimere un comportamento libero dall’ego, fallisce. Questo è il test di un sadhaka.